PROBLEM SOLVING
Problem solving strategico e generazione di nuove idee
a cura di Umberto Santucci
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La teoria
Il problem solving strategico è un modello terapeutico e consulenziale di grande efficienza ed efficacia. Basato sulle teorie di Milton Erickson e Gregory Bateson, è stato sviluppato negli anni sessanta da Paul Watzlawick, Don Jackson, John Weakland e altri nel Mental Research Institute di Palo Alto in California, e ulteriormente perfezionato dagli anni ottanta ad oggi da Giorgio Nardone, allievo di Watzlawick e direttore del Centro di Terapia strategica di Arezzo.
Il modello è usato da Nardone e dalla rete di affiliati sparsa in tutta Italia per la cura di casi clinici spesso fortemente limitanti, come fobie e panico, disfunzioni sessuali e alimentari, schizofrenia, ecc. Da quasi un decennio le tecniche sperimentate in ambito clinico vengono applicate con successo anche in ambito aziendale e organizzativo, perché se funzionano per risolvere gravi problemi psichici, a maggior ragione funzionano per disfunzioni molto meno gravi nelle organizzazioni, per rapporti interpersonali fra persone normali, per raggiungere obiettivi di miglioramento o per realizzare strategie di cambiamento.
Il modello strategico si basa sul costruttivismo, il linguaggio persuasivo, gli stratagemmi dell’arte militare cinese, la psicoterapia breve, la dinamica dei sistemi e la cibernetica.
Per il costruttivismo non esiste una realtà oggettiva al di fuori della nostra percezione, o se esiste non possiamo conoscerla se non attraverso il nostro sistema percettivo/reattivo. Watzlawick in tal senso parla di “realtà inventata”, dove ognuno di noi si crea la propria realtà con un processo di autoinganno inevitabile. Questo concetto si riscontra sia nell’esperienza ordinaria, quando una nuova conoscenza ci fa vedere un oggetto consueto in modo del tutto diverso, sia nella scienza più avanzata, quando l’idea del ricercatore condiziona i dati stessi della ricerca.
La soggettività della percezione porta fatalmente all’autoinganno: se non vedo in modo obiettivo neanche ciò che sta fisicamente davanti a me, ma ciò che voglio vedere in quel momento, a maggior ragione le mie convinzioni, a volte i miei pregiudizi, influenzano l’opinione che mi faccio di una certa cosa, di un evento, di un messaggio.
E allora, dice Watzlawick, se è fatale che io mi autoinganni, posso imparare a farlo in modo utile. Posso convincermi che il bicchiere mezzo vuoto sia invece mezzo pieno. Posso credere di essere antipatico, oppure convincermi di essere simpatico. In tal modo scatta una profezia che si autoavvera, perché se entro in una stanza convinto di essere simpatico, guarderò tutti con un sorriso, ed essi mi sorrideranno, rinforzando la mia convinzione in un circolo virtuoso.
Come mia esperienza personale io amo dire che porto fortuna a chi mi frequenta anche solo con uno scambio di email. Non so se sia vero, ma non fa male a nessuno, e capita che ogni tanto qualcuno mi scriva dicendo che ha trovato lavoro, ha avuto un nuovo incarico, è uscito da una situazione poco gradevole. Io gli rispondo che non mi stupisce, dato che porto fortuna. Proporre me stesso come portafortuna è un mio autoinganno che per alcuni agisce come profezia che si autoavvera, innescando in loro un atteggiamento più ottimistico che li porta a superare blocchi negativi.
Per risolvere i problemi, secondo Watzlawick, bisogna operare un cambiamento nel modo di vedere la cosa, e nel modo di reagire a ciò che si vede. Ma il cambiamento deve essere qualcosa di diverso da ciò che solitamente facciamo, altrimenti la nostra reazione è una soluzione che tiene in vita il problema, invece di risolverlo. Se ho un problema, tutto ciò che ho fatto finora è sbagliato giacché non elimina il problema, ma a volte lo fa crescere. L’autoinganno può essere qualcosa di inedito, ma più spesso è un modo di vedere vecchio anche di fronte a nuovi stimoli. Poiché in passato una nostra idea o un comportamento hanno avuto successo, tendiamo a ripeterli anche se non sarebbero più tanto adatti alla nuova situazione. Ecco dunque che tendiamo ad intrappolarci in autoinganni ricorrenti e ridondanti, in tentate soluzioni disfunzionali, per usare ancora la definizione di Watzlawick.
Per uscire dalla trappola un primo passo è cercare di osservare il problema da punti di vista diversi. Un buon esercizio è scegliere cinque punti. Per esempio, se stiamo lavorando ad un nuovo progetto, possiamo cercare di vederlo dal punto di vista nostro, da quello del nostro committente, del nostro cliente, dell’utente finale, del venditore.
Sempre per cambiare i soliti comportamenti un altro strumento potente è il linguaggio. Rifacendose alle tecniche ipnotiche di Milton Erickson e alla teoria dell’emisfero sinistro e destro del cervello, Watzlawick dice che per comunicare all’emisfero sinistro disponiamo dellinguaggio digitale, ossia combinatorio, verbale, logico-matematico, formale. Per comunicare all’emisfero destro non abbiamo linguaggi altrettanto formalizzati, ma un insieme di linguaggi di tipo analogico. Non più combinazione di pochi elementi astratti e convenzionali (le lettere dell’alfabeto, le cifre aritmetiche), ma espressione di costrutti analoghi all’accadimento reale (immagini, suoni, gesti, atteggiamenti fisionomici e corporei, sogni, favole, metafore). Il linguaggio digitale è economico e preciso. Occupa poco spazio e poca memoria, e si presta ad immagazzinare enormi quantità di conoscenze. Con le 21 lettere dell’alfabeto si scrive tutta la Divina Commedia. Ma lo stesso Dante non fa altro che evocare immagini per esprimere anche concetti astratti quali la colpa e l’espiazione (gli amanti travolti dal vento impetuoso, gli ipocriti che camminano sotto il peso di un mantello che all’esterno è d’oro, all’interno di piombo).
La capacità di passare dal linguaggio digitale all’analogico e viceversa ci serve ancora ad uscire dalla routine e a cambiare modalità. Inoltre è alla base di tutta la poesia, l’arte figurativa, la musica, e perfino le invenzioni e scoperte scientifiche, se pensiamo alla doppia elica del DNA che sarebbe stata ispirata dal sogno del l’Uroboro, il serpente che si mangia la coda. Quindi è un prerequisito fondamentale per la creatività. E’ anche alla base della comunicazione persuasiva, come sanno i grandi predicatori, i leader carismatici, i pubblicitari. “Il regno di Dio è simile ad una vigna…” “Ho fatto un sogno…” “Dieci piani di morbidezza…” “così tenero che si taglia con un grissino…”
Gregory Bateson parla di “struttura che connette”, e cioè di un livello in cui ci sono le cose, i messaggi, le azioni, e di un metalivello che qualifica, definisce, organizza gli elementi del primo livello. Una stessa azione, per esempio dare un pugno a qualcuno, cambia significato se il pugno viene dato durante una violenta discussione, o se due vecchi amici si rivedono e uno dà un pugno sulla spalla all’altro dicendogli ”sei sempre il solito simpaticone!”. Bateson ha studiato molto il gioco negli animali e nell’uomo, domandandosi che cosa fa capire che si sta giocando, non si sta facendo sul serio. Gioco, finzione, rappresentazione, sono metastrutture, e stanno alla base del teatro, del romanzo, del cinema, ma anche di rituali sacri, politici, sociali. Basti pensare all’inaugurazione di un anno giudiziario, con tutti i giudici paludati in modo strano.
Risolvere problemi significa saper entrare e uscire dalle strutture per non restarci intrappolati. Bateson parla di “doppio legame” quando ci troviamo di fronte a due scelte ambedue sbagliate o dannose per noi, e Watzlawick di relazione simmetrica e complementare, quando ci si comporta nello stesso modo del nostro interlocutore, o in modo opposto (aggressivo/aggressivo o aggressivo/remissivo), o one-up e one-down, quando ci si pone di fronte all’interlocutore in modo dominante o sottomesso.
Per cambiare le routine che tengono in vita il problema o per rompere il doppio legame bisogna mettersi ad un livello più alto, o con l’aiuto di qualcuno o cambiando punto di vista e comportamenti. Watzlawick ricorre alla metafora del barone di Munchausen che cade in acqua e si tira fuori prendendosi per il codino della sua parrucca. Noi non possiamo prenderci per il nostro codino, se non ci mettiamo fuori dalla situazione, o quanto meno se non la osserviamo un po’ dall’alto.
Gestione di un gruppo
Ecco il modello teorico/pratico per gestire un gruppo in modo da fargli risolvere un problema o fargli trovare nuove idee.
Il setting più adatto è una sala tranquilla, con i partecipanti seduti in circolo, con possibilità di scrivere. Il conduttore del gruppo sta da un lato della sala, vicino ad una lavagna a fogli mobili su cui scrive per parole chiave le cose che man mano vengono prodotte dal gruppo, e si muove nello spazio centrale fra i partecipanti per coinvolgerli e guidarli meglio. Il numero ideale di partecipanti sarà di 8/10, anche se il modello può essere applicato con molte persone. Io l’ho applicato con oltre 70 persone in un incontro di due ore, e Giorgio Nardone, che me lo ha insegnato, mi ha detto di averlo applicato in teatro con più di 2.000 persone.
Si può lavorare su un problema noto, comune e condiviso, per esempio migliorare il servizio di mensa aziendale, o motivare meglio la forza vendita. Oppure ogni partecipante può lavorare su un suo problema, anche segreto. Il conduttore conosce e applica il processo di problem solving, ma non è un esperto del problema, che appartiene ai singoli partecipanti e al gruppo di lavoro. Come dice Edgar Schein, il guru della consulenza di processo, il cliente conosce il suo problema molto meglio di qualsiasi consulente. Il conduttore dunque guida il cliente attraverso il suo problema, senza entrare nel problema stesso. In tal modo facilita lo svolgimento del processo, ma non ne condiziona i risultati.
Il conduttore comincia a fare un primo giro di domande ai partecipanti, per guidarli adefinire il problema: è un ostacolo da superare, un difetto da rimuovere, o invece è un miglioramento da conseguire, un obiettivo da raggiungere?
Il limite o l’errore è di strategia (non so che cosa fare), di comunicazione (so che cosa fare ma lo faccio male) o di relazione (so che cosa fare e saprei farlo bene, ma ho un blocco emotivo e non ci riesco)?
L’obiettivo è SMART (sfidante, misurabile, accordato, raggiungibile, tempificato)? E’ espresso in termini concreti? (Non “migliorare il servizio allo sportello”, ma “dimezzare i tempi di attesa delle code su dieci sportelli”).
I partecipanti scrivono ognuno il suo problema. Se si sta lavorando su problemi personali, il conduttore passa al secondo punto. Altrimenti fa un giro di tavolo e scrive su un foglio le parole chiave che definiscono il problema o l’obiettivo.
Quando il gruppo ha chiaro davanti a sé il problema o l’obiettivo, il conduttore lancia una domanda che in genere provoca un po’ di sconcerto:
“Che cosa potreste fare o non fare, dire o non dire per mandare deliberatamente in malora la situazione?” oppure “Come ognuno di voi potrebbe personalmente e volontariamente peggiorare le cose?”
Questa è la fase del “come peggiorare”, o worst fantasy. Dopo un primo momento di perplessità, i partecipanti scatenano la loro fantasia perversa, e finiscono col divertirsi ad immaginare scenari apocalittici. Dal punto di vista della creatività, questo è un primo cambiamento del punto di vista, un comportamento contro-intuitivo, perché fin da piccoli siamo stati educati a migliorare le cose, non a peggiorarle. Ma il proverbio dell’arte militare cinese dice: “se vuoi addrizzare una cosa devi prima trovare il modo per storcerla di più”. Anche in questo caso, se i problemi devono restare segreti si va avanti. Altrimenti si fa un giro di tavolo e il conduttore scrive le idee prodotte dal gruppo.
A questo punto, con un frequente effetto sorpresa sui partecipanti, il conduttore li invita a riflettere se negli ultimi tre mesi è stata veramente fatta qualcosa di quelle che hanno immaginato per peggiorare. Immancabilmente i partecipanti scoprono che sì, in effetti stanno proprio facendo quelle tre, quattro o più cose peggiorative! Ecco dunque che hanno scoperto dove cominciare ad operare il cambiamento, dove sono i punti deboli del sistema. Ma ci sono arrivati da soli. E come diceva Pascal, ognuno di noi si convince più facilmente con ciò che pensa lui stesso, non con ciò che gli viene detto da altri.
Alla fantasia peggiorativa si può aggiungere un altro giro di domande per esplorare le tentate soluzioni disfunzionali, se esse non sono ancora venute fuori: che cosa hai fatto finora che invece di risolverlo tiene in vita il problema? Quando il problema si presenta, che cosa tendi a fare di più? Lo eviti, cerchi di controllare sempre più la situazione o deleghi ad altri? Ognuno di queste comportamenti va bene finché non diventa ridondante, e cioè l’unico comportamento che si ripete sempre di fronte al problema. Evitare continuamente significa accettare la propria sconfitta, controllare ostinatamente significa picchiare la testa contro il muro fino a rompersela, invece di spostarsi per cercare un varco, delegare significa chiedere aiuto e quindi confermare la propria debolezza.
Il conduttore chiede ancora: ci sono state eccezioni? Come, dove, quando?
Nelle eccezioni, hai agito in modo volontario per tua scelta, ti è venuto in modo spontaneo, o sei stato costretto da qualcuno o qualcosa?
Le eccezioni sono le prime leve di cambiamento, perché sono cose che già siamo stati capaci di fare, e che quindi possiamo deliberatamente ripetere per uscire dalla tentata soluzione disfunzionale. Si tratta sempre di portare alla luce qualcosa che abbiamo già nelle nostre risorse, non che ci viene imposta dall’alto.
Dopo la fantasia peggiorativa il conduttore propone ancora un altro punto di vista e dice: “Immaginate che sia arrivato un mago, o una fata, che con la sua bacchetta magica, puff! fa un miracolo. All’improvviso, per magia, il problema è completamente risolto. Domani entrate in ufficio (o in casa, o dove che sia), e che cosa vedete? Da che cosa vi accorgete che il problema non c’è più, o che l’obiettivo è stato raggiunto? Che cosa vedreste in concreto girandovi intorno? Che cosa farebbero i vicini? E gli altri? E il capo?” Tecnicamente questa si chiamamiracle question.
I partecipanti scrivono la loro fantasia del miracolo e poi si fa il solito giro di tavolo per scrivere che cosa è venuto fuori. Questa è la fase più creativa, perché da qui in genere escono le soluzioni sperate. Il mago libera qualsiasi inibizione, perché con la sua magia può fare tutto, senza vincoli di tempo, di denaro, senza problemi di gerarchia. Se ben stimolato, anche il più timido può lanciarsi nei suoi sogni, ed esprimerli senza timore, tanto è una magia! Tutte le proposte vengono scritte sul foglio, in modo da tracciare la situazione ideale immaginata dal gruppo, la macchina perfetta, il prodotto vincente, il progetto brillante, l’ufficio superefficiente.
Il conduttore ora disegna sulla lavagna una scala di dieci gradini, e trascrive in cima la situazione ideale scaturita dal miracolo. Poi, additando il nono gradino, chiede: “subito prima della situazione ideale, come sarebbero le cose immediatamente prima di arrivarci? Come sarebbe la situazione in modo che con un piccolo passo si arriverebbe in cima?” Ognuno dice la sua, o la scrive sul suo foglio. Il conduttore deve far capire di immaginare la situazione quasi perfetta, perché in genere i partecipanti scrivono o dicono qualcosa di piuttosto lontano dalla situazione ideale. Per esempio, se il problema è l’aggiornamento puntuale del data base,
al decimo gradino troveremo noi che consultiamo il data base su un fatto recentissimo e troviamo tutto ben classificato, al nono troveremo l’incaricato che struttura il dato recente e lo inserisce, all’ottavo l’incaricato che riceve il dato da aggiornare, e così via discendendo fino alla situazione attuale. Ogni gradino inferiore deve contenere le condizioni che permettono di ottenere quanto sta scritto nel gradino immediatamente superiore.
La scala ha lo scopo di suddividere il macroproblema in dieci problemi più piccoli, e di rendere esplicito un percorso attraverso cui è possibile arrivare dalla situazione attuale a quella ideale. Anch’essa però viene costruita dal gruppo. Il conduttore si limita a stimolare i meno attivi, a richiedere concretezza, a non far fare salti troppo lunghi da un gradino all’altro.
Quando il gruppo ha completato tutta la scala, il conduttore prescrive di mettere in pratica da domani ciò che compare sul primo gradino. In tal modo si comincia a fare in concreto qualcosa di diverso da quanto fatto finora, però qualcosa di molto accessibile dato che sta nel primo gradino e dunque che implica solo un piccolo cambiamento rispetto alla situazione attuale. Un cambiamento che però interrompe la ridondanza delle tentate soluzioni e innesca un processo virtuoso che si ripercuote su tutto il sistema. Raggiunto il primo gradino nascono già nuovi punti di vista, nuove idee.
Tutto il percorso può esser fatto anche in una sola seduta, che basta ad innescare il cambiamento sistemico. Tuttavia, per un problema o un miglioramento complesso è preferibile fare cinque o sei sedute con cadenza mensile, in modo da verificare i cambiamenti che man mano vengono applicati al sistema, e da governare le eventuali resistenze al cambiamento.
L’esperienza in CTS
Ho applicato questo metodo in cinque incontri con i rappresentanti delle sedi territoriali e i coordinatori di area del CTS - Centro Turistico Studentesco e Giovanile, associazione turistica che celebra i trenta anni di esistenza e di successo in uno scenario completamente cambiato dalle nuove tecnologie (disinterrmediazione favorita dal web, viaggi low cost e last minute, diverse propensioni alla spesa dei soci, ecc.). Per fronteggiare questi cambiamenti il CTS è impegnato nel ripensamento della sua stessa mission e in un importante sforzo di cambiamento delle consuetudini operative, dei punti di vista sul viaggio, del rapporto fra sedi territoriali e direzione, fra sportello e soci.
Il mio intervento, della durata di quattro ore, era destinato a gruppi di una ventina di persone di età e caratteristiche diverse. Con ogni gruppo ho cominciato con la fantasia peggiorativa. Ognuno ha scritto le sue idee, poi le abbiamo messe in comune con il giro di tavola. Ho chiesto se effettivamente stavano facendo qualcosa di negativo, e abbiamo messo così in evidenza le prime problematiche reali, o almeno percepite dal gruppo. E’ seguito il miracolo, da cui sono venute fuori idee e proposte nuove, come la creazione di un gruppo d’acquisto per ridurre i costi di apparecchiature e materiali di consumo necessari agli uffici, o di una intranet fra tutte le sedi, utilizzando risorse open source e voip come Skype, o periodi in cui ci si scambia di ruolo fra dirigenti centrali e operatori periferici, per rendersi conto dei problemi reciproci, o creare un pool di consulenti amministrativi in grado di assistere le sedi di recente apertura.
Non abbiamo fatto la scala, che potrà esser fatta in un secondo tempo, dal momento che i gruppi hanno preso coscienza già in questo primo incontro della loro capacità di trovare nuove soluzioni. Inoltre al mio intervento seguiva quello dei docenti di project management, di marketing e di business plan, che hanno preso le idee scaturite dal mio incontro, e le hanno trasformate in progetti concreti da proporre alla direzione.
In tutti gli incontri siamo usciti da un atteggiamento reattivo, con un locus of control esterno (subisco situazioni che non dipendono da me) e una propensione alla lamentela, per assumere un atteggiamento proattivo, con locus of control interno (intervengo su ciò che dipende da me) e il passaggio dalla protesta alla proposta, dal problema al progetto.
Il mio intervento, della durata di quattro ore, era destinato a gruppi di una ventina di persone di età e caratteristiche diverse. Con ogni gruppo ho cominciato con la fantasia peggiorativa. Ognuno ha scritto le sue idee, poi le abbiamo messe in comune con il giro di tavola. Ho chiesto se effettivamente stavano facendo qualcosa di negativo, e abbiamo messo così in evidenza le prime problematiche reali, o almeno percepite dal gruppo. E’ seguito il miracolo, da cui sono venute fuori idee e proposte nuove, come la creazione di un gruppo d’acquisto per ridurre i costi di apparecchiature e materiali di consumo necessari agli uffici, o di una intranet fra tutte le sedi, utilizzando risorse open source e voip come Skype, o periodi in cui ci si scambia di ruolo fra dirigenti centrali e operatori periferici, per rendersi conto dei problemi reciproci, o creare un pool di consulenti amministrativi in grado di assistere le sedi di recente apertura.
Non abbiamo fatto la scala, che potrà esser fatta in un secondo tempo, dal momento che i gruppi hanno preso coscienza già in questo primo incontro della loro capacità di trovare nuove soluzioni. Inoltre al mio intervento seguiva quello dei docenti di project management, di marketing e di business plan, che hanno preso le idee scaturite dal mio incontro, e le hanno trasformate in progetti concreti da proporre alla direzione.
In tutti gli incontri siamo usciti da un atteggiamento reattivo, con un locus of control esterno (subisco situazioni che non dipendono da me) e una propensione alla lamentela, per assumere un atteggiamento proattivo, con locus of control interno (intervengo su ciò che dipende da me) e il passaggio dalla protesta alla proposta, dal problema al progetto.
Conclusione
In sintesi, il problem solving strategico serve a risolvere un problema o a raggiungere un obiettivo. Si applica ad una persona singola o ad un gruppo più o meno numeroso. Può trattare temi personali, di comunicazione, organizzativi, di produzione, di vendita, di gestione di crisi e di conflitti.
Attraverso la successiva adozione di atteggiamenti e punti di vista diversi (come peggiorare, miracolo e scala, tentate soluzioni da non ripetere) muove leve di cambiamento che agiscono con dinamica sistemica su tutto il gruppo o l’organizzazione e attivano le menti nella generazione di nuove idee, nuove soluzioni, nuovi modi di vedere, di fare, di comunicare.
Anche la semplice rottura di un doppio legame o di un rapporto simmetrico può generare grandi cambiamenti, con una felice reazione a catena.
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